TITO LIVIO (Padova 59 a.C. - Padova 17 d.C.)

"Storia di Roma"
Libro VIII, 24.
"Si tramanda che in quello stesso anno venne fondata in Egitto la città di Alessandria e che il re dell'Epiro Alessandro, assassinato da un esule lucano, con la sua fine confermò un oracolo di Giove a Dodona. Essendo stato chiamato in Italia dai Tarantini, l'oracolo lo aveva avvertito di guardarsi dall'acqua Acherusia e dalla città di Pandosia, perchè lì il destino aveva fissato per lui il termine della vita. Perciò era passato rapidamente in Italia, in modo tale da trovarsi quanto più lontano possibile dalla città di Pandosia e dal fiume Acheronte, che, scendendo dalla Molosside negli stagni infernali, sfociava nel golfo di Tesprotide. Ma, come sovente succede, l'uomo cercando di evitare il proprio destino finisce per coglierlo in pieno: dopo aver ripetutamente sconfitto le legioni dei Bruzii e dei Lucani, Alessandro strappò ai Lucani la colonia tarantina di Eraclea, conquistò Siponto degli Apuli, Cosenza e Terina dei Bruzii e ancora altre città dei Messapi e dei Lucani, e inviò in Epiro trecento illustri famiglie da tenere in ostaggio. Dopo tutto questo, si accampò non lontano dalla città di Pandosia (che si trovava presso i confini con la Lucania e il Bruzzio), su tre colline poste a breve distanza le une dalle altre, dalle quali era possibile effettuare incursioni in ogni punto del territorio nemico. Aveva intorno a sé circa duecento esuli lucani che egli considerava affidabili, ma che, com'è in genere l'attitudine di quel popolo, erano pronti a cambiare fede col cambiare della fortuna. Siccome le pioggie incessanti avevano inondato tutte le campagne e diviso in tre tronconi l'esercito, togliendo la possibilità dell'assistenza reciproca, le due guarnigioni dove non c'era il re furono sopraffatte da un improvviso attacco dei nemici. Questi, dopo averle fatte a pezzi, si concentrarono esclusivamente sull'assedio della guarnigione in cui era Alessandro. Gli esuli lucani inviarono messaggeri ai loro conterranei, promettendo che, se avessero ottenuto la garanzia di poter rientrare incolumi, avrebbero consegnato nelle loro mani il re, vivo o morto. Ma Alessandro stesso, con un gesto audace e valoroso, si aprì la strada tra i nemici con un plotone di uomini scelti e uccise il comandante dei Lucani in duello. Quindi, raccolti i suoi che si erano dispersi nel corso della fuga, arrivò a un fiume, dove le recenti rovine di un ponte, spazzato via dalla violenza delle acque, indicavano la strada da seguire. Mentre i suoi uomini stavano attraversando il fiume in un guado malsicuro, un soldato spossato dalla fatica e dalla paura, maledicendo il sinistro nome del fiume, gridò:'A ragione ti chiamano Acheronte!'Non appena il re udì questa frase, subito ricordò il suo destino e si fermò, incerto se affrontare il guado o meno. Allora Sotimo, uno dei giovani nobili al suo seguito, chiedendogli perché indugiasse in un momento di così grande pericolo, gli indicò i Lucani che stavano cercando di tendergli un agguato. Quando il re li vide sopraggiungere a breve distanza in gruppo compatto, sguainò la spada e spinse il cavallo nel mezzo della corrente. Era già quasi arrivato sulla terraferma quando un esule lucano lo trafisse con un giavellotto. Alessandro crollò a terra con il giavellotto conficcato nel corpo esanime e la corrente lo trascinò in mezzo ai posti di guardia dei nemici, dove fu orrendamente mutilato. Dopo averlo tagliato a metà, ne mandarono una parte a Cosenza e tennero l'altra per ludibrio. Mentre la utilizzavano come bersaglio lanciando da lontano pietre e giavellotti, una donna sola, mescolatasi alla folla che stava infierendo oltre il limite di ogni rabbia umana, li pregò di fermarsi per un attimo e in preda alle lacrime disse che suo marito e i suoi figli erano prigionieri in mano del nemico, e che col corpo del re, benché sconciato, sperava di poterli riscattare. Questo pose fine alle mutilazioni. Ciò che restava del cadavere venne sepolto a Cosenza: soltanto quella donna se ne curò. Le ossa vennero inviate al nemico a Metaponto, e di lì furono trasportate via mare in Epiro alla moglie Cleopatra e alla sorella Olimpiade, rispettivamente madre e sorella di Alessandro Magno. Questa fu la triste fine di Alessandro dell'Epiro."
Tito Livio: "Storia di Roma". Trad. Guido Reverdito, Milano, 1994


Libro XXIV, 20.
"(Annibale) Giunto che fu a Salàpia, si fece portare frumento dall'agro di Metaponto e di Eraclea, ché l'estate era ormai finita, e il luogo gli piacque per i suoi quartieri d'inverno".
Tito Livio: "Storia di Roma". Trad. Guido Vitali. Bologna, 1958.


Libro XXV, 11.
"Mentre già essa (la rocca di Taranto) era oppugnata con ogni specie di macchine e di opere, un reparto mandato loro da Metaponto aggiunse animo ai Romani, sì che una notte assalirono improvvisamente le opere dei nemici".
Tito Livio: "Storia di Roma". Trad. Guido Vitali. Bologna, 1958.


Libro XXV, 40.
"Ed era un presidio ormai assai forte, essendo venute truppe da Metaponto per la difesa della rocca (di Taranto).Perciò i Metapontini, liberati a un tratto da quella soggezione, passarono ad Annibale. La stessa cosa su quella costa fecero i Turiesi. Li aveva spinti a ciò non tanto la defezione dei Tarentini e dei Metapontini, coi quali, anch'essi oriundi dell'Acaia, avevano comune stirpe, quanto l'ira prodotta in essi contro i Romani dalla recente strage dei loro ostaggi".
Tito Livio: "Storia di Roma". Trad. Guido Vitali. Bologna, 1958.


Libro XXVI, 39.
"Così, presa in mezzo, la nave romana fu catturata. Il panico invase allora le altre navi, al veder perduto il vascello pretorio; e fuggendo in disordine alcune colarono a picco, altre, spinte a remi sulla costa, furono tosto preda dei Turini e dei Metapontini".
Tito Livio: "Storia di Roma". Trad. Guido Vitali, Milano, 2002


Libro XXVII, 16.
"(Annibale) restato là pochi giorni si ritirò a Metaponto. Di là mandò a Fabio, a Taranto, due metapontesi con una lettera dei maggiorenti di quella città, per ottenere dal console la promessa che i loro atti precedenti sarebbero rimasti impuniti se essi avessero consegnato Metaponto con il suo presidio punico. Fabio, credendo vera la proposta, fissò il giorno in cui si sarebbe recato a Metaponto, e diede per quei capi una lettera, che fu rimessa ad Annibale. Questi, ben lieto dell'esito che avrebbe avuto la sua frode, poichè lo stesso Fabio vi si era lasciato prendere, dispose insidie non lontano da Metaponto. Ma quando Fabio, prima di lasciare Taranto, trasse gli auspici, questi non furono favorevoli né una prima volta né la seconda; e quando col sacrificio di una vittima consultò gli dei, l'aruspice annunziò che bisognava guardarsi da una frode e da insidie del nemico. I Metaponinesi, poichè egli non era venuto nel giorno stabilito, furono nuovamente mandati per invitarlo a non più temporeggiare; ma, subito trattenuti, per il timore d'una più crudele inchiesta, rivelarono l'insidia".
Tito Livio: "Storia di Roma". Trad. Guido Vitali, Milano, 2002


Libro XXVII, 42.
"L'indomani, partito all'alba, inseguendo a grandi giornate la fama e le tracce del nemico, lo raggiunse non lungi da Venosa. Anche là vi fu una battaglia tumultuaria; vi furono uccisi più di duemila Cartaginesi. Allora, per vie montane e di notte il Cartaginese (Annibale), per non offrire occasioni di battaglia, si diresse a Metaponto".
Tito Livio: "Storia di Roma". Trad. Guido Vitali, Milano, 2002


Libro XXVII, 43.
"Frattanto, mandati da Asdrubale quando questi aveva lasciato l'assedio di Piacenza, quattro cavalieri galli e due numidi recanti lettere per Annibale, dopo che attraverso tanti nemici ebbero percorsa in quasi tutta la lunghezza l'Italia, mentre volevano seguire Annibale che ripiegava su Metaponto, furono tratti da error di cammino a Taranto, e da alcuni foraggiatori romani sparsi per le campagne furono condotti al propretore Q. Claudio".
Tito Livio: "Storia di Roma". Trad. Guido Vitali, Milano, 2002


Libro XXVI, 51.
"Il console Claudio, tornato al suo accampamento, fece gettare davanti ai posti di guardia nemici (a Metaponto) la testa di Asdrubale, che aveva portato seco accuratamente conservata, e vi fece esporre anche gli africani prigionieri, incatenati com'erano, e ne fece mandare due, liberi, ad Annibale, a riferirgli ciò ch'era avvenuto. E si narra che Annibale, colpito da sì grave lutto pubblico e familiare, esclamasse ch'egli riconosceva in ciò il destino di Cartagine; e, levato il campo per raccogliere nell'estrema punta d'Italia, nel Bruzio, tutte le forze ausiliarie che, sparse in troppo vasto spazio, non avrebbero potuto difendere, nel territorio del Bruzio fece passare tutti gli abitanti di Metaponto, togliendoli via dalle loro dimore, e quelli della Lucania ch'erano a lui soggretti".
Tito Livio: "Storia di Roma". Trad. Guido Vitali, Milano, 2002