BACCHILIDE (516 a.C.- 451 a.C.)

EPINICIO 11. "Ad Alessidamo, vincitore nella lotta a Delfi".


"Nice dolce di doni, te di cospicuo onore
cinse il padre celeste
che dall'alto governa,
e, nell'Olimpo ricco d'oro assisa
accanto a Zeus, su l'esito
di gesta sentenzi ai mortali
e ai numi senza morte.
Vieni propizia tu, figlia di Stige
di fonde chiome e giuste: opera tua
se Metaponto è corsa
-città che i numi pregiano- da giovani
forti di membra:
vincitore salutano, gl'inni
di baldoria e tripudio,
il mirabile figlio di Faisco.

Mite su lui fu l'occhio del figlio della dea
Leto dall'alto cinto,
che a Delo nacque: a Cirra
caddero, presso Alessidamo, al suolo
serti di fiori innumeri,
premiando la lotta gagliarda
che fu per lui trionfo.
Nella giornata non lo vide il sole
a terra stramazzare. E io dirò
che, nella sacra piana
di Pèlope divino, lungo l'Alfeo
splendido d'acque
se la via della retta giustizia
stornata non avessero,
cinte le chiome dell'ulivo gluaco -
premio agli ospiti aperto -,
alla sua piana di giovenche avrebbe, alla sua patria,
fatto ritorno. Là non fu l'inganno,
in quel paese dalle belle piazze,
a piegare il ragazzo in arti subdole;
ma un dio,
o le menti, che sbandano, degli uomini
il vanto gli carpirono di tra le mani, eccelso.
Ora la cacciatrice
dal fuso dorato, la Mite
che scaglia, ha dato la vittoria opima.
A lei costrusse un'ara
il figliolo d'Abante, con le figlie
belle di vesti, un giorno.

Via dalle stanze di Preto, Era possente
le spaurì, nella morsa
d'un delirante fato.
Al tempio vanno della dea dal cinto
rosso, tenere menti
di vergini, e parlano: 'il padre
per opulenza supera,
che molto può, la bionda dea che siede
accanto al soglio dell'augusto Zeus'.
Lei con loro si cruccia,
un pensiero che cangia e che disvuole
scaglia nei petti.
Verso il monte coperto di frondi
in fuga si dirigono,
ed erompe da loro immane grido.

La città di Tirinto lasciarono, contrade
che numi edificarono.
Ché già dall'anno decimo,
lungi da Argo ch'è diletta ai numi,
i semidèi vi stavano,
intrepidi, chiusi nel bronzo,
con l'invidiato re.
La ribelle contesa, da un appiglio
gramo, tra i due fratelli divampò,
Acrisio e Preto; e genti
stroncavano, fra risse smisurate,
cozzi funesti.
Scongiurava i figlioli d'Abante
il popolo: spartissero
quella fertile terra ricca d'orzo

e dimorasse il giovine,
prima d'un bieco impatto ineluttabile, a Tirinto.
Questo voleva il dio figlio di Crono,
onorando gli epigoni di Dànao
e Lìnceo agitatore di cavalli:
la tregua
a detestati crucci. Un muro fecero
i Ciclopi magnanimi per la città famosa,
splendido - e fu riparo
d'eroi celebrati, divini
esuli d'Argo madre di cavalli.
Di lì le figlie intatte
di Preto, con le loro trecce nere,
in fuga si spiccavano.

Còlto fu da dolore nell'anima, e un assillo
lo percoteva, ignoto:
configgersi nel petto
il duplice fendente della spada.
Guerrieri lo trattennero
con blande parole e violenza.
E per tredici mesi
errarono smaniate in cupe selve
quelle fanciulle, lungi dall'Arcadia
madre di greggi. Poi,
come, inseguendo, il padre a Luso giunse
splendida d'acque,
si deterse le carni. E chiamava
la figliola, dai grandi
occhi bovini, di Leto velata

di rosso, con le mani tese ai raggi del sole
dai rapidi cavalli,
ché salvasse le figlie
dalla misera furia delirante:
'Venti vacche t'immolo,
intatte di fulvio pelame'.
Ascolto diede al voto
la cacciatrice figlia dell'Altissimo,
Era convinse, alla follia sacrilega
delle vergini in fiore
pose per sempre fine. Quelle, rapide,
fecero un tempio,
un altare: del sangue di pecore
lo macchiavano, e cori
femminili instauravano alla dea.

E di lì scortasti
alla città nutrice di cavalli i tuoi guerrieri
achei. Con lieta sorte a Metaponto
vivi, sovrana d'oro delle genti,
e nel dolce boschetto che piantarono
i padri
lungo l'irriguo Casa, quando presero
l'alta città di Priamo, con gli Atridi ravvolti
in corazze di bronzo -
ché vollero i numi così.
Se taluno giustizia in cuore alberga,
nell'ambito del tempo
totale, quegli troverà prodezze
innumeri d'Achei".



Da "I lirici corali greci". Trad. Filippo Maria Pontani, Torino, 1976